cammino sotto casa in zona rossa
Il cammino è sempre bello anche quando sei costretto a farlo a due passi da casa perché in zona rossa. E se hai la fortuna di abitare alla estrema periferia – come l’ho io –, riesci a camminare pure nella campagna che vedi da casa.
Un piccolo tracciato anonimo, la cui monotonia, però, ti aiuta a pensare camminando.
Anche i pensieri diventano essenziali come il paesaggio che attraversi. Pensieri semplici, ma che vanno al fondo del nostro essere al mondo.
Rifletti che la la vita funziona secondo un meccanismo ben collaudato – che è poi lo stesso di quando eravamo bambini -: bisogno (desiderio) / soddisfazione. La nostra vita è una successione di (piccole o grandi) mete da raggiungere. Anzi meglio: la vita coincide con le attese delle mete che si succedono continuamente.
Crescendo acquisiamo la consapevolezza che il gioco della vita – desiderio/soddisfazione – si svolge in un tempo ben delimitato. Un tempo finito. La mia vita finirà. Come è finita quella di chi mi ha preceduto (tutti quelli vissuti da quando l’uomo è comparso, 250.000 anni fa, ad oggi) e di chi mi seguirà (ancora per qualche centinaio di migliaia di anni fin quando la temperatura della Terra, a causa di un Sole diventato sempre più caldo, diventerà insopportabile per gli individui segnandone la loro scomparsa).
Alcune centinaia di migliaia di anni di presenza umana sono un soffio rispetto ai 4 miliardi e mezzo di anni stimati per la vita della Terra. Anch’essa finirà.
La Terra se ne andrà. Poi toccherà al Sole (forse tra 6 miliardi e mezzo di anni) che andrà esaurendosi ed esploderà. Toccherà, poi, alla nostra Galassia che si scompaginerà e si arrenderà al caos termodinamico.
Sebbene lo spazio e il tempo siano contrassegnati dalla finitudine, noi – a causa dei tempi lunghissimi e degli spazi immensi – pensiamo che la Terra, il nostro sistema, la Galassia a cui apparteniamo siano infiniti. Mentre percepiamo la finitudine della nostra vita proprio per i suoi tempi brevissimi (istantanei se paragonati a quelli dell’Universo).
Ed allora ci dilettiamo nel gioco di neutralizzare la nostra finitudine. Come?
Ricercando il senso. Sia all’interno del nostro piccolo trattino di vita (sperando di trovare una direzione su cui collocare le successive mete a cui aspiriamo per dare così una parvenza di ordine alla nostra vita), sia oltre il piccolo trattino della vita (coltivando l’illusione che essa non finirà, ma continuerà).
Le specialiste del senso “oltre il trattino” sono sempre state le religioni. L’illusione che la vita possa continuare nonostante la morte reale (solo apparente per il religioso) ha costituito il più potente artificio per sopportare la finitudine. La convinzione (non razionale ma sentimentale) che esista una Presenza che alla stregua di un padre ci protegga nelle difficoltà della vita e che poi addirittura – dopo la nostra morte fisica – continui a farci vivere accanto a lui in una vita che non avrà mai fine, ci fa ritornare in quello stato di beatitudine che abbiamo sperimentato fin dai primi giorni di vita nella protezione della madre e nella sicurezza del padre.
I “religiosi” sono di due gruppi: quelli che non pensano che sia un’illusione ciò in cui credono e quelli che, pur consapevoli dell’illusorietà delle loro credenze, accettano la strada religiosa (per opportunismo, per paura, per debolezza, per abitudine, per dovere …). I primi, che rappresentano una esigua minoranza, vivono la gioia e la protezione dell’abbandono (la stessa che vive il bambino nei confronti della madre), non perdono la fiducia nel vivere pur in presenza delle prove difficili della vita; gli altri – la stragrande maggioranza – sono quelli che si servono della religione.
Non solo le religioni hanno la pretesa di vincere la finitudine, anche la scienza e la tecnica perseguono il sogno di sconfiggere il limite per introdurci nell’eternità: la resurrezione dal freddo, l’immortalità digitale con le intelligenze artificiali, la clonazione per fermare l’invecchiamento, …. La fiducia, neopositivistica, nell’idea di un progresso sociale, civile, politico dell’umanità che dovrebbe marciare verso la sconfitta delle malattie, la cancellazione della fame nel mondo, l’aumento dell’aspettativa di vita, … Sono, per ora, fantasie che lasciano insoddisfatto il mio bisogno individuale di vincere la finitudine.
Ma dobbiamo continuare sulla strada della ricerca della vittoria sul finito o forse dobbiamo cambiare direzione? Potrebbe essere che la contraddizione espressa, all’inizio, dell’essere finito che coltiva il desiderio d’infinito oltre ad essere la lucida fotografia della realtà possa costituire anche la via su cui muoversi? E se al subire passivamente sostituissi l’accettazione positiva della mia finitudine? La consapevolezza ed accettazione della mia finitudine al posto di stimolare la reazione centrifuga che mi spinge a cercare vie di superamento, dovrebbe produrre una reazione centripeta che mi permetta di guardare con profondità il finito. Scoprire l’infinito nel finito. Guardare le cose del mondo liberandole dall’indifferenza per cogliere la loro unicità; assumere il limite della finitudine per darle forma e guardarle nella loro preziosità. Sguardo di attesa e di ascolto e non di conquista, stupore e meraviglia oltre la noia.
E così anche un sentierino anonimo e monotono come quello che sto percorrendo diventa occasione di sentire l’infinito nella finitudine.