chi sono
Ho conseguito una laurea in filosofia ed un baccellierato in teologia; sono consulente filosofico e guida ambientale escursionistica. Ho insegnato filosofia nei licei per 40 anni. Oggi chi penso di essere? Ho fatto un giochetto con me stesso: mi sono fatto un’autoconsulenza filosofica. Questo è il risultato.
- Ho notato una cosa singolare. Non sopporto quando le cose vanno veloci, preferisco la lentezza.
Vuoi spiegarti meglio?
- Ad esempio se devo fare un viaggio, e sono da solo, non prendo l’autostrada ma preferisco prendere strade secondarie; se ho un interlocutore che ha una dialettica veloce mi trovo a disagio, non riesco a tenere il ritmo della conversazione … se mi dovessi trovare in uno di quei dibattiti pirotecnici che spesso si vedono alla TV mi sentirei un pesce fuor d’acqua.
Mi dici cosa non sopporti della velocità?
- Il fatto che quando si procede velocemente non si ha la possibilità di approfondire, si vola veloce sulle cose, come se non venissero considerate in tutta la loro ricchezza, non si cogliessero in tutte le loro sfaccettature. Sono cose che non si fermano, passano e si dimenticano.
Quindi se ho ben capito, la lentezza ti dà la possibilità di considerare le cose con maggiore profondità e nella loro complessità, e grazie a ciò, per te, le cose si consolidano, acquisiscono consistenza, diventano significative.
- Sì, è proprio così.
E pertanto ti senti come un pesce fuor d’acqua in un mondo come il nostro dove la velocità con tutto ciò che comporta (superficialità, riduzione della complessità, sfuggevolezza …) la fa da padrone.
- Sì, diciamo che sono situazioni che non mi sono congeniali.
Esistono altre situazioni che non ti sono congeniali?
- Mi danno fastidio i riti, le convenzioni perché ripetono schemi di comportamento che sono sempre gli stessi … sì sono comodi perché collaudati però non aprono a novità interessanti; mi da fastidio, in una conversazione, quando si parla delle solite cose perché è come se ci si rinchiudesse in modelli stantii senza che si prospetti l’apertura verso cose nuove … o quando il mio interlocutore si ritiene depositario di verità incontrovertibili …
E quando ti trovi all’interno di una conversazione di questo tipo che fai?
- Quando mi accorgo che la conversazione non può prendere un’altra piega, svicolo per abbandonarla oppure ironizzo spostando il discorso sul comico.
Spiegati meglio su cosa intendi per comico.
- Ad esempio enfatizzo un elemento del discorso per provocare una risata.
Insomma tu che ricerchi la profondità ora ti accontenti della superficialità di una risata!
- Ad una prima impressione la risata potrebbe apparire superficiale; ma io credo che abbia una sua profondità. Intanto io spero che il mio interlocutore la avverta come una critica alla sua presunta sicumera; e poi la risata ridimensiona le presunte certezze dando la possibilità di aprirsi a nuove possibilità, è divertente proprio nel senso che aiuta a divergere lo sguardo
Dicevi prima che come extrema ratio abbandoni la conversazione col tuo interlocutore: ma abbandonando la scena non rischi di isolarti e quindi perdere l’occasione di instaurare una relazione più profonda?
- Beh sì è un rischio. Ma spero in un’opportunità futura. Comunque provo sempre prima ad alzare il livello con altri tentativi.
Sbaglio se sintetizzo, alla luce di quanto finora emerso, dicendo che sei alla ricerca di una realtà che non sia banale, una realtà che sia percepita nella maggiore complessità possibile? Che ciò che tu definisci convenzione, ritualismo siano una sorta di maschera che potrebbe nascondere qualcosa di interessante? Il problema è come far emergere questo “interessante”. Riesci a farmi qualche esempio di situazioni in cui ciò è stato possibile?
- Mi capita quando ho la possibilità di star da solo – in particolare in una camminata in natura o durante la lettura di testi molto coinvolgenti – e quindi posso pensare e viaggiare con la mente; mi capita quando riesco ad instaurare relazioni significative ed autentiche riuscendo ad andare oltre le maschere (per una affinità di interessi, per una particolare esperienza dolorosa, …); mi capita quando con un gruppo riusciamo a realizzare qualcosa di bello che ha richiesto la disponibilità, l’impegno di ognuno.
Il primo esempio che hai fatto mi è chiaro, saresti più esplicito con gli altri due esempi che hai fatto?
- Quando mi relaziono a qualcuno che ha avuto una sofferenza è come se il rapporto prendesse subito la piega dell’autenticità, cadono le barriere, si instaura un’intesa profonda; con un gruppo di amici abbiamo creato un’associazione (siamo tutti accomunati dalla passione per l’escursionismo e la scoperta di luoghi nuovi) che ci sta offrendo la possibilità di guardare con uno sguardo nuovo una realtà che davamo per scontata …
Insomma mi sembra di capire che un autentico rapporto col reale riesci ad averlo quando hai la possibilità di viaggiare nell’ideale, quando instauri relazioni profonde con gli altri. Ma cos’hanno in comune queste due tendenze?
- Mi sembra che tutte e due mi spingano a superare il particolare, l’individuale, ad uscire, ad andare oltre: può essere che è ciò che voi filosofi chiamate “trascendenza”?
Può essere. Nel tuo caso possiamo dire che la dimensione ideale – ciò che trascende il reale – è fondamentale per avere un rapporto vero col reale?
- Sì, mi sembra di cogliere il mondo (la natura, gli altri) nella sua complessità e profondità quando riesco ad andare “oltre”: quando sperimento la sensazione di sentirmi parte del tutto nella natura, quando riesco a cogliere le profondità della nostra anima leggendo un libro, quando si instaura un rapporto profondo con qualcuno grazie alla condivisione di interessi ed esperienze… Insomma, credo che la profondità del reale possa venir fuori solo se provocato dall’ideale.
Mi pare che tu abbia colto il cuore della questione: un particolare modo di intendere il rapporto tra ideale e reale che fa il paio con un altro rapporto ovvero quello tra parte e tutto.
- Non ti seguo, spiegami meglio
E’ possibile avere a che fare con una realtà più autentica (oltre le maschere, i ritualismi, le convenzioni, le banalità …) solo se la potenza delle idee agisce su di essa. Insomma le idee hanno il potere di modificare la realtà. Vogliamo ragionare su questa tesi? Considerando la tua vita pensi che possa esser vera?
- A pensare ad alcune scelte fatte nella mia vita penso di sì. Come spiegarmi la scelta di diventar prete a 18 anni se non sotto la spinta di un forte ideale con l’obiettivo di vivere una vita più intensa di quella dei miei coetanei che non mi interessava? Come spiegarmi la scelta di vivere 30 anni della mia vita dedicandoli all’impegno politico, guidato da un forte ideale di trasformazione della polis, considerato che non accettavo l’esistente? Mi ha colpito quando prima hai affermato che il mio modo di intendere il rapporto tra ideale e reale fa il paio con quello di parte e tutto. Riflettendoci, quello che maggiormente mi ha spinto nell’impegno politico è stato il desiderio di superare quel carattere di frammentazione, divisione, separatezza, conflitto che caratterizza la scena politica e di costruire un mondo dove le parti mettano al primo posto il bene del tutto più che l’esasperazione delle loro singole individualità. L’esperienza del tutto (della pienezza) che nella prima fase della mia vita avevo identificato con Dio (di qui la scelta di dedicargli la mia vita), ora – morto Dio – la vivo nella contemplazione della Natura.
Interessante quanto hai detto sul rapporto parte-tutto. Ma non pensi che questo tuo modo d’intenderlo rischi la dissolvenza dell’individuo in un tutto indistinto? La ricchezza e concretezza proveniente dal confronto con le diversità-individualità non si esaurisce in un astratto magma indistinto?
- Non credo. Penso che tutta la ricchezza di una individualità possa sprigionarsi solo nel sentirsi parte di un tutto: pensa alla capacità che ha l’amore di far emergere quanto di meglio c’è in ognuno di noi. Penso che una individualità riesca a cogliere la profondità del suo essere solo nella misura in cui riesce a creare una sintonia col tutto. Insomma un tutto in cui la individualità si dissolve ma allo stesso tempo – in essa – si riconosce autenticamente.
Voglio fare l’avvocato del diavolo e chiederti: non credi che questo forte orientamento “ideale” ti faccia trascurare la realtà così com’è e quindi ti porti a “imporre” un ideale di realtà? Questa realtà-ideale proprio perché tale non credi che possa avere scarsa presa sulla realtà e rimanere non più di un sogno irrealizzabile? Non pensi che se si vuol realizzare qualcosa si debba partire dalla realtà (non dal tuo ideale di realtà) perché questa avrebbe la “presa” per la concretizzazione? Insomma ti sto dicendo che il tuo sogno di cambiare una realtà che non ti piace potrebbe rimanere un sogno che non avrà presa sull’effettiva realtà e che tu ti riduca a consolarti con una contemplazione astratta. Che ne pensi?
- Beh indubbiamente il rischio esiste. Bisogna rimodulare giorno per giorno quel sottile equilibrio che pur tenendoti radicato al reale sia capace di iniezioni di idealità salvaguardandoti dal rischio di appiattirti sulla realtà esistente. Insomma tener sempre viva la fiamma della trascendenza senza staccare i piedi da terra: una trascendenza immanente. Devo comunque riconoscere che mi ha fatto riflettere una espressione che hai usato: “imporre un ideale di realtà”. Mi spieghi meglio?
L’ideale potrebbe essere anche violento soprattutto quando è molto distante dal reale ed in quel caso si potrebbe essere indotti ad imporlo con forza.
- Sai cosa sto pensando ora? Scorrendo la mia vita mi rivedo come uno per cui il rispetto delle regole è sempre stato molto importante. La puntualità, fare bene il proprio compito … Insomma uno che ha sempre avuto un forte senso del dovere. Quel dovere – che a detta di Kant – è un’imposizione alla mia sensibilità, è un piegare la mia natura sensibile. Potrebbe essere questa la violenza che intendevi?
Dimmi tu, cosa ne pensi?
- Credo che questo senso del dovere sia più assimilabile ad una necessità performativa. Insomma non mi piace solo immaginare astrattamente ma voglio che una cosa si realizzi. E questa si può realizzare solo con una ferma e continua volontà. Sarà per questo che odio parlare tanto per parlare? Ho invece sempre preferito il parlare per costruire qualcosa, un parlare che confluisca in un risultato.
Mi interesserebbe riprendere un punto precedente. Alla mia domanda su cosa fai quando ti trovi in una conversazione poco interessante, tu mi hai risposto: ironizzo, svio l’attenzione, lascio perdere … Potrei obiettarti che al posto di entrare in medias res e trasformare dall’interno preferisci abbandonare la scena. Non ti sembra un controsenso per te che vuoi modificare il reale? Non ti sembra di essere un po’ spocchioso nel considerare quisquilie quanto si dice solo perché non ti interessa?
- Sì, potrebbe sembrare spocchia; come potrebbe essere anche incapacità di stare in medias res (a causa di quella velocità che caratterizza in genere le conversazioni); oppure semplicemente perché non catturano il mio interesse. Comprendo la tua obiezione: se vuoi cambiare le cose devi rimanere in medias res perché queste cose, sebbene poco interessanti, costituiscono l’opportunità del “gancio” per potersi aggrappare alla realtà. Effettivamente devo essere più attento su questo aspetto. Però non riesco a rinunciare a relativizzare. Sto pensando ora a quella mia predilezione per la risata di cui ti dicevo precedentemente: potrebbe interpretarsi come reazione alle rigidità che chiudono e bloccano la fluidità irripetibile della vita, reazione alla enfatizzazione del particolare rispetto al tutto?
Interessante questa tua idea della risata, una tesi simile la sostenne Bergson in un suo saggio. Ma concentriamoci sul termine che hai usato: relativizzare. Cosa vuoi intendere precisamente?
- Voglio intendere che dobbiamo avere sempre presente che le nostre credenze (ovviamente anche le mie per quanto solide le possa considerare), i nostri comportamenti sono delle verità deboli. Ironizzare, svicolare è per me il modo per ricordarlo (a me e agli altri). Il relativismo è quella convinzione che ti aiuta a vivere con leggerezza, senza prendersi troppo seriamente. Credo che questo ci porti ad essere anche meno violenti nelle relazioni con gli altri: quando abbiamo la pretesa di possedere una verità “forte” siamo portati ad affermarla anche con violenza. E poi penso che relativizzare ti consenta di mantenere la tua apertura alla trascendenza.
Un’ultima cosa, se mi consenti. Hai parlato precedentemente di tre fasi importanti della tua vita dove, in successione, da quanto ho potuto capire sono stati centrali prima Dio, poi gli Altri, infine la Natura. Ma cos’hanno in comune questi tre poli?
- Penso il bisogno di pienezza, di unità, di completamento, l’esperienza del tutto di cui parlavo prima. Nella mia giovinezza Dio ha risposto a questo bisogno: è stata una fase interessante della mia vita durante la quale nel continuo dialogo silenzioso con Dio ho avuto modo di cominciare ad entrare nella profondità della mia anima. Successivamente il desiderio di realizzazione dell’unità mi ha spinto verso la Polis: il comune impegno politico mi ha fatto conoscere belle persone facendomi sperimentare la condivisione. Anche se oggi per me Dio è morto, il dialogo profondo con la mia anima continua; anche se la Polis mi ha regalato batoste e delusioni, restano storie che hanno inciso sulla mia vita. Oggi la Natura soddisfa quel desiderio di pienezza che credo alberghi in ogni individuo. La sua contemplazione mi fa sentire una parte di un tutto eterno. Non so cosa succederà per il futuro.
Mi pare che finora abbiamo fatto un bel lavoro di scavo. Sono emersi tratti interessanti della tua visione del mondo. Ora mi interesserebbe approfondire il ruolo giocato dalla filosofia nella costruzione della tua visione del mondo. E per iniziare ti chiedo: che idea ti sei fatto della filosofia?
- Penso che la filosofia sia un atteggiamento critico di perenne, radicale, sistematica messa in dubbio di ciò che è ovvio e consolidato; un pensiero consapevole orientato alla comprensione che può avvalersi di tutte le possibili suggestioni teoriche senza porne nessuna a suo specifico fondamento; un processo, libero ed autoguidato, che trova in se stesso il proprio metodo. La filosofia è per me quella comprensione più profonda, più ampia, più articolata della realtà che non cerca aggiramenti alla tragicità dell’esistenza, ma che affronta i limiti del nostro essere al mondo per individuarne la misura. E’ una comprensione che produce saggezza intesa non come il raggiungimento di una condizione di pacificazione definitiva, ma perlomeno di verità transeunti. Una comprensione che avviene attraverso il dialogo (con se stesso e con gli altri) teso ad esplorare e perfezionare la visione del mondo per recuperare il senso dell’essere al mondo. Una comprensione produttrice di senso inteso non come chiusura e padronanza del reale, ma come apertura dello spazio del possibile, rinnovamento dell’atto originario della meraviglia. Una comprensione che si risolve nella cura del mondo non nel senso di utilizzarlo strumentalmente, ma come apertura ad esso sì da consentirci di abitare presso le cose.
Hai dato una definizione ben articolata di cosa rappresenta per te la filosofia; e da quello che riesco ad intendere non coincide proprio con la conoscenza di dottrine astratte, avulse dalla vita e anche difficili da capire. E’ così?
- Ripercorrendo la mia “storia” con la filosofia, ricordo che fin dall’inizio ho sempre reputato molto pratica la comprensione; non ha mai suscitato il mio interesse un pensiero astruso lontano dalla vita, ma solo un pensiero che dialogasse con la vita. Insomma, per dirla con un’espressione di un filosofo contemporaneo (Ran Lahav), la comprensione doveva essere sempre una “comprensione vissuta”. Mi appassionavo a quelle filosofie che avevano una direzionalità pratica (finalizzate alla ricerca della saggezza), e maturavo l’idea che non ci fosse solo il percorso che dal pensiero portasse alla vita, ma che anche dalla vita (in relazione al suo grado di maturazione) si potesse giungere ad un pensiero. Una corrispondenza biunivoca tra pensiero e vita: una migliore comprensione mi aiutava a vivere meglio, vivere meglio mi aiutava a comprendere più profondamente. Una sorta di circolarità ermeneutica secondo cui bisogna vivere come si pensa per pensare a come si vive, pensare a come si vive per vivere come si pensa.
Ci sono state delle filosofie che maggiormente hanno influenzato questa tua convinzione che la filosofia sia intimamente legata alla vita?
- Sì, fin dall’inizio mi appassionai a quelle correnti che oggi vengono definite Filosofia ellenistica. Queste filosofie mi hanno dato l’opportunità di conoscere ma soprattutto di acquisire un habitus filosofico che si è nutrito di alcune pratiche professate da esse. In particolare l’epoché scettica, la prosoché stoica, l’autarchia epicurea.
Beh, ora devi spiegarmi cosa intendi con queste tre espressioni.
- Siamo portati costantemente a chiudere il cerchio, definire giudizi, per avere dei punti fermi che ci consentano l’orientamento. Con queste azioni cristallizziamo il flusso della vita, costruiamo dei parametri che ci metteranno nelle condizioni di comprendere la vita. Ma nella misura in cui siamo precipitosi nella costruzione di questi schemi rassicuranti, nella stessa misura questi schemi ci forniranno una comprensione parziale e superficiale della vita, tralasciando aspetti che potrebbero essere rilevanti. Ed allora la preoccupazione di cogliere la complessità, la singolarità, deve indurci a non essere precipitosi, a sospendere quindi il giudizio. Ho sempre ritenuto l’epochè scettica un importante orientamento di vita teso a non mortificare singolarità e complessità.
L’altra espressione che hai usato era prosoché stoica: cosa intendi?
- E’ importante acquisire la consapevolezza su cosa dipende da noi (su cui, quindi, abbiamo potere) e cosa non dipenda per poter esercitare efficacemente la nostra libertà di cambiare le cose. Spesso oscilliamo tra un delirio di onnipotenza (a cui ci induce la società della tecnica che dimentica i limiti che la Natura ci impone) e un fatalismo pessimista comportante una sfiducia nelle proprie capacità. La prosoché stoica in quanto esercizio di ricentramento su di sé, ci fa acquisire la consapevolezza di cosa rientri effettivamente sotto il nostro dominio.
E poi dicevi dell’autarchia epicurea …
- Sì, in effetti l’incapacità di gestione dei nostri desideri spesso è fonte di disagio. La falsa idea che la felicità dipenda dal raggiungimento di mete che la nostra società consumistica pone sempre più in alto ci convince del fatto che la felicità è uno stato che deve esser raggiunto … aggiunto: appartiene al segno più. E se la felicità avesse a che fare col segno meno? Se la felicità coincidesse col togliere, col tornare all’essenziale? Non contribuirebbe ciò a renderci più liberi dalla dipendenza di oggetti che difficilmente è in nostro potere raggiungere?
Hai parlato degli scettici, degli stoici, degli epicurei: sembrerebbe che i tuoi riferimenti filosofici siano solo quelli dell’antichità greca. E’ così?
- No, la lettura di Nietzsche ha segnato profondamente la mia formazione filosofica e le mie scelte di vita. Il suo nichilismo attivo mi ha costretto a rivolgere lo sguardo alla terra e a prendere atto della mia condizione di viandante (senza una meta definitiva, senza una casa stabile …) che scopre la novità dei paesaggi che si prospettano nel cammino, costruendosi schemi di orientamento di cui ha consapevolezza che non potranno durare per sempre. Il tema dell’oblio mi ha aiutato a prendere coscienza della provvisorietà delle credenze, a relativizzare tutto costringendomi a mantenere uno sguardo sempre aperto alla scoperta (come il viandante che si riempie gli occhi dei nuovi paesaggi che incontra). Il nomadismo è la delusione dei forti che rifiutano il gioco delle illusioni evocate come sfondo protettivo. E’ la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella casualità degli accadimenti.
Non ti ho mai sentito citare Socrate che generalmente viene considerato il padre della filosofia ….
- La grande lezione socratica ha giocato indubbiamente un ruolo fondamentale nella mia formazione filosofica. Se il filosofare è l’irresolubile tensione tra amore e sapere, l’ignoranza è il presupposto per custodire tale tensione. Una tensione che viene alimentata dall’esercizio critico della ragione che comprende e dissolve i problemi costruendo verità temporanee. Il filosofare è il permanere in quel sottile equilibrio di chi aspira ad un sapere sicuro mentre è consapevole della sua ignoranza. Si tratta di vivere la contraddizione, affrontando con sicurezza la precarietà, pensando razionalmente l’emozionalità ed emozionandosi della ragione.
Più volte nel tuo discorso è ricorsa la definizione della nostra ragione come esercizio critico. Ma indagando la profondità della nostra anima io scopro altre dimensioni che non possono ridursi al semplice aspetto della razionalità critica: un’intuizione, una visione sono sempre il prodotto della nostra razionalità? Che ne pensi?
- Ci sono stati autori che mi hanno indotto a riflettere sui limiti di un certo uso della ragione quando esso viene a coincidere esclusivamente o prevalentemente col pensiero critico: tanti filosofi nel corso della storia hanno fatto ben più che applicare abilità logiche all’analisi delle idee, essi hanno creato idee edificando complesse teorie per gettar luce sui problemi fondamentali dell’esistenza; il loro lavoro è stato ispirato da visioni del mondo ed è stato nutrito di creatività e immaginazione piuttosto che limitarsi ad aride tecniche abilità logiche. Ho presenti le intuizioni del coeur pascaliano, la comprensione vissuta kierkegaardiana, il pensiero rammemorante heideggeriano, la fede filosofica jaspersiana. Insomma ritengo che la filosofia debba incrementare la dimensione spirituale dell’esperienza antropologica, una sorta di spiritualità laica anteriore ad ogni evoluzione in attitudini religiose. Una dimensione che si esprime nello stupore di fronte all’esistere, nella ricerca del senso, nella custodia del silenzio, nell’educazione all’ascolto, nel gusto della contemplazione estetica, nell’apertura all’ulteriorità misterica, nell’intima partecipazione alle sofferenze di tutti i viventi, nell’impegno incessante per una società più fraterna, nella tenerezza delle relazioni con gli altri esseri viventi … il tutto sempre condito con quell’ironia che è propria della filosofia.
Precedentemente abbiamo parlato del rapporto parti-tutto e di come questa dinamica abbia giocato un ruolo importante nella tua visione del mondo. Ci sono stati filosofi che hanno contribuito a farti maturare queste idee?
- Mi accorgo che la mia azione teorica è influenzata da una prospettiva che potrei definire antiatomistica, anti individualistica nel senso che il “tutto” costituisce il senso delle “parti” e che le parti pur nell’esercizio della loro individualità devono sempre mantenere un’organicità col tutto. Questa posizione è stata sicuramente influenzata dalla filosofia spinoziana (le individualità dei modi che possono esser pensati solo in virtù degli attributi della Sostanza), dalla filosofia rousseauiana (il moi commun in cui l’individuo ritrova la sua essenza più propria), da quella hegeliana (il finito che si risolve nell’infinito, il popolo che è precedente al singolo). E certamente il pensiero platonico ha avuto anche il suo peso (la giustizia come armonia ed equilibrio delle parti).
Alcuni passaggi del tuo discorso precedente mi hanno fatto pensare al ruolo che l’idealismo avrebbe potuto avere nella tua formazione: è così?
- Platone mi ha insegnato a guardare in alto per capire ciò che sta in basso. Si riesce ad avere un autentico rapporto col reale quando hai la possibilità di viaggiare nell’ideale: pensare, viaggiare tra le idee favorendo la loro contaminazione, favorisce una capacità nuova di comprensione del reale. Lo sguardo trascendente senza staccare i piedi dalla terra, ti permette di cogliere un reale non omologato, scontato: una prospettiva di trascendenza immanente di jaspersiana memoria. Chi cerca di vivere filosoficamente di fronte allo stress dell’esistenza è capace di fermarsi, d’interrogarsi, di non farsi travolgere, sa trovare le energie necessarie per non essere servo delle proprie debolezze, per essere padrone di sé anche nella sofferenza, nel disagio, nelle fatiche della vita; la filosofia non preserva da nulla, non dà garanzie, non offre benessere appunto, non cancella la fatica della vita, ma ci rende abbastanza forti per affrontarla.
Ci sono state altre suggestioni filosofiche che sono state importanti nel tuo processo formativo?
- Sì ci sono state altre filosofie (non nel senso di contenuti ma come modalità di comprensione del reale e produzione di senso) che hanno contribuito a strutturare quel sistema di coordinate che è la mia visione del mondo e che certamente influenza il mio dialogo filosofico. Ritengo che abbiano giocato un ruolo importante anche delle idee con forte potere euristico pescate nella tradizione filosofica: il divenire come processo dialettico esplicantesi nel superamento dell’ostacolo (Eraclito, Hegel), la pluralità dell’io – in particolare il rapporto tra ragione ed emozione – (Platone, Cartesio, Spinoza, Hume, Kant), la dialettica tra persona e maschera (Nietzsche), la saggezza come ricerca della giusta misura (Aristotele), il dovere come armonia tra la parte e il tutto (Kant). Sono solo alcuni esempi che non esauriscono certamente il tesoro di risorse di cui sono debitore alla filosofia.
Per concludere questo nostro colloquio filosofico, mi piacerebbe far luce su un rapporto che, precedentemente, hai affermato essere molto importante: quello con la Natura, ed in particolare il camminare in essa.
- Penso che il camminare racchiuda una potente metafora della nostra esistenza: l’andare oltre. Infatti il camminare rinvia a quel senso che la stanzialità delle nostre abitudini, l’immobilità a cui destiniamo i nostri corpi, tende a dimenticare. Camminare è simbolo della trascendenza che costituisce la natura più propria del nostro essere: ci ricorda che per quanto il desiderio di stabilità sia forte, sempre avvertiamo la tensione a guardare oltre, quasi che il senso del nostro esserci non possa essere rintracciato nella immobilità ma solo nel movimento che ci predispone ad una apertura continua.
Andare oltre, tensione a guardare oltre … ma per fare cosa?
- Per conoscere sé stessi. Il cammino è una metafora del viaggio interiore. Mi tornano in mente le parole di Thoreau “Volgi il tuo occhio all’interno e scoprirai migliaia di regioni, nel tuo cuore, vergini ancora. Viaggiale tutte e fatti esperto di cosmografia interiore”. In questo viaggio interiore, facilitato dal movimento dei piedi, cogliamo l’opportunità di muoverci nelle regioni più sconosciute della nostra interiorità. Quando camminiamo per molte ore, soprattutto in presenza di elementi stressori come il buio e la solitudine, si mettono in moto pensieri irrazionali che si manifestano come timori, pregiudizi, preconcetti negativi su se stessi e le proprie prestazioni, pensieri con cui necessariamente dobbiamo fare i conti. E poi il silenzio. Coglierlo e viverci dentro senza avvertire quell’irrefrenabile desiderio di riempire il vuoto che crea. Silenzio che costituisce l’opportunità per riflettere sul proprio autocontrollo ed equilibrio emotivo, per far emergere elementi del proprio sentire/agire rimasti sepolti. Silenzio che ci permette di cogliere quei rumori di sottofondo di cui quotidianamente non ci rendiamo più conto. Silenzio che ci aiuta a vivere un tempo che non scorre, un tempo che dissolve l’ordine della successione come afferma Thoreau: “I miei giorni non erano i giorni della settimana nè erano spezzati in ore, turbati dal ticchettio dell’orologio; poichè vivevo come gli indiani Puri che si dice abbiano una sola parola per dire oggi, ieri, domani”.
Camminare è una condizione favorevole per fare filosofia? Non sarebbe più adatto un luogo chiuso che aiuti maggiormente la riflessione, al riparo di ogni distrazione esterna? E poi, credo che il disagio per lo sforzo fisico non contribuisca proprio alla concentrazione del pensiero.
- No, io ritengo che il camminare inviti al filosofare. Il camminatore è instancabilmente sollecitato a rispondere ad una serie di domande fondamentali di senso, domande che il sedentario si pone molto meno. Camminare induce ad interrogarsi su di sé, sul proprio rapporto con la natura e gli altri, a meditare su un’inattesa gamma di questioni. Ci sono precedenti illustri che sostengono questo. Rousseau: “Quando sto fermo riesco a malapena a pensare; bisogna che il mio corpo sia in movimento perchè entri in movimento anche il mio spirito. La vista della campagna, il succedersi di scorci gradevoli, l’aria aperta, l’appetito, la salute che acquisto camminando, la libertà dall’osteria, la lontananza da tutto ciò che mi fa sentire la mia dipendenza, che mi porta alla mia situazione, tutto questo libera la mia anima, mi dà più ardimento nel pensare”. Nietzsche: “Star seduti il meno possibile; non fidarsi dei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per i muscoli. Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini. Il sedere di pietra – l’ho già detto una volta – è il vero peccato contro lo spirito santo”. Kierkegaard: “Soprattutto non perdere la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo e, non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata … ma stando fermi si arriva sempre più vicino a sentirsi malati”. Camminare ci permette di vivere, attraverso il contatto con la natura, tutta una serie di disagi a cui comunemente non siamo più abituati. La necessità di affrontare disagi di tipo climatico ma anche di tipo più interno (la fatica) ci permette innanzitutto di sperimentarli, di analizzare il nostro modo di affrontarli, di cogliere come in realtà sia la propria percezione soggettiva della situazione a renderla piacevole o spiacevole: l’atteggiamento verso i disagi prodotti da una camminata ed il modo di gestirli ci riporta al modo di leggere ed affrontare gli aspetti “negativi” di una qualsiasi situazione.
settembre 2020
… hanno detto alcuni miei studenti …
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